E adesso fioriscono i marmi, lungo i viali.
I cipressi alzano al cielo le loro lunghe ciglia verdi e nella terra nascondono radici di consolazione.
È uso, soprattutto in questi giorni, andare a trovare i defunti al cimitero, nel loro dormitorio. Sui marciapiedi, sandali e stivali si rincorrono in un carnevale d'abiti incerti, come incerto è questo tempo. Ci si saluta con affetto o con riguardo, con abbracci stretti oppure da lontano. E mentre si cammina, come a passeggiare per il corso, si osservano le nuove lapidi e ci si sorprende dei nomi nuovi, scritti in lettere cromate, come ci si sorprende ancora della morte: ”ma è morto? ma come? io lo avevo visto sei mesi fa…”. La morte, che è unica certezza.
Ancora si vede qualche sedia pieghevole, qua e là, che diventa il divano del salotto buono di casa o del tinello su cui ci si sedeva per parlare, quando ancora si poteva dialogare.
In questo rito, antico, le foto (scelte fra le più belle, ma mai veramente belle) lucidate per l'occasione, quasi sempre ferme in un sorriso, sono prova di un istante che è diventato eterno.
A volte qualche scritta, in memoria, a volte niente. Tutti i rimpianti e tutte le parole non dette, come strumenti musicali prima della prima, si intonano e stonano e si accordano.
Avrei potuto dirgli, avrei potuto abbracciarla, avrei potuto consolarlo, avrei potuto perdonarlo, avrei potuto farmi perdonare…e a qualche angolo, sottovoce: sai, nostro nipote ha preso dieci a scuola, e il vicino di casa ha litigato con la moglie...e poi la notte i cani abbaiano ancora e la pianta è seccata...non preoccuparti, ho trovato lavoro, riesco a pagare tutto…lo sai che vengo per la gente, dopo quello che mi hai fatto passare!…che dici papà, va bene per me? me lo sposo?...e tu mamma, sai che ho imparato a fare le polpette, ma non saranno mai come le tue e non ricordo più quella ninna nanna che mi cantavi….a volte mi sembra di dimenticare il tuo volto e la tua voce mi sembra troppo lontana… mi manchi…sono arrabbiata con te, perché mi hai lasciata? non lo sai che senza di te io sono niente? non verrò più qui, mi fa troppo male e …verrò di nuovo domani: non posso vivere senza di te, non posso iniziare la giornata…ti amo, mi rimproveravi di non dirtelo mai e ora chissà se mi senti mentre te lo dico…scusa, ma sono stato ammalato, il dottore mi ha proibito di uscire, non pensare che io t’abbia dimenticata…non ce la faccio più ad abbracciare il vuoto…ricordi quella volta, al mare? …figlio mio , che strazio a casa la tua stanza è sempre uguale e il mio cuore è squartato…
I fiori perfettamente ordinati per scala cromatica o disordinati in mazzetti arruffati eppure pagati cari, colorano il freddo. Alcuni di plastica, si illudono di durare a lungo e di mantenere vivo il pensiero…
Qua e là, brilla un lumino: la luce e la fiamma e poi di nuovo il buio e il gelo.
Ma di tanto in tanto, lapidi spoglie, foto ingiallite, solitudini più sole. Allora sovente accade che una mano gentile, strappi dal mazzo che porta in braccio come un bimbo, una margherita e la incastri nell’unica fessura possibile, e faccia un segno di croce veloce prima di riprendere il cammino.
Si intrecciano le storie e le memorie. Ma storie e memorie, si costruiscono da vivi.
Quando arriva sorella morte, che ci trovi vivi, pieni di parole dette, di carezze fatte, di abbracci dati. Quando arriva, ci trovi con la lampada accesa dell’amore generoso che tutto ama, tutto spera, tutto crede e che si incarna nel qui e ora del cuore di sangue e di carne che batte, e segna i nostri giorni.
Ci resti l’impronta di chi amiamo sul cuore, per ritrovarla nei giorni dell’assenza, quando un fiore diventa preghiera e la speranza si fa certezza di un perenne incontro.
di Maria LISMA
La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.
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